Nives MEROI


Vai ai contenuti

spedizioni

RACCONTI

SPEDIZIONI


Realizzare una spedizione richiede senz’altro un bell’impegno: ci vogliono tempo, energie e soprattutto denaro ed è possibile che questi fattori contribuiscano a far oltrepassare un po’ quella soglia.
In Himalaya, così come sulle Alpi, ci sono zone o anche semplicemente versanti di montagne in cui sei completamente solo e isolato, ed altre che sono talmente affollate da essere quasi “impraticabili”. Ma essere soli in un raggio di giorni e giorni di cammino o salire in fila indiana sulle corde fisse all’Everest non fa differenza. L’avere intorno altre persone può creare solo false sicurezze, perché in realtà si è comunque soli e ogni nostra azione deve nascere dalla consapevolezza della propria autosufficienza, fisica e psicologica. Per questo semmai, la soglia di rischio dovrebbe essere valutata con una maggiore attenzione.
Non penso ci sia soluzione. Valutato il rischio per la propria incolumità, non ci si dovrebbe nemmeno porre la domanda se intervenire o no, come non dovrebbe essere un vanto successivamente, l’aver prestato soccorso a chi aveva bisogno d’aiuto. In realtà non credo che la montagna ci renda migliori: in alta quota siamo le stesse persone che per strada si girano dall’altra parte per non dover soccorrere una persona in difficoltà, quindi chi non lo fa a livello del mare non lo farà nemmeno in alta quota.
Penso che sarebbe insensato anche creare delle norme che impongano alle spedizioni la prestazione del soccorso, in primo luogo perché come in ogni campo, un labirinto di regole sempre più ferree ha come unico risultato che queste vengano sempre meno rispettate, e soprattutto perché una aleatoria garanzia di soccorso aprirebbe le porte ad un ulteriore maggior numero di persone attratte dalla sfida con le grandi montagne ma assolutamente impreparate a farlo.
Sono convinta che uno degli aspetti più vantaggiosi delle spedizioni sia proprio l’opportunità che ci viene data di entrare in contatto con le popolazioni locali. Parlare e vivere insieme a loro, conoscere la loro realtà e la loro storia rappresenta per noi il modo migliore per imparare a smentire i nostri pregiudizi e la nostra presunzione di considerare il nostro, come il “modello universale e superiore”.
Per arrivare ad un equilibrio fra le mie esigenze vacanziere e la loro realtà, ho sempre cercato di impostare relazioni basate sul reciproco rispetto. E’ vero, alle volte possono sorgere alcuni disaccordi, ma generalmente sono determinati dal dissennato sfruttamento della manodopera da parte dei loro stessi intermediari e delle loro istituzioni.
Forse prima di tutto bisognerebbe definire cosa intendiamo per “exploit”, quali sono gli elementi che fanno distinguere un’impresa fra le migliaia di salite realizzate, quali sono gli ingredienti e in quali dosi. Senza dubbio per exploit si intende un’impresa difficile, ma questo non significa solo “la più difficile tecnicamente”; nella valutazione ci sono molte altre componenti: l’armonia, la fantasia, il rispetto, l’equilibrio. Pensare che per fare un exploit sia “sufficiente” rischiare di più sarebbe semplicistico e riduttivo. Ma al giorno d’oggi in nome delle esigenze commerciali, ogni attività umana ci viene proposta come moda, in maniera semplicistica e sensazionalistica e anche l’alpinismo, strettamente legato al contesto sociale e culturale non sfugge a questa regola.
E così giorno dopo giorno, in nome delle leggi di mercato ci ritroviamo a dover accettare e perdonare di tutto, compresi gli exploit “gonfiati” o quelli che di alpinistico hanno ben poco.
Per quanto mi riguarda, quando vado in montagna io non sono in grado di pensare alla valutazione alpinistico / commerciale della salita: sono già abbastanza impegnata a concentrarmi su quello che sto facendo. Mentre per problema di mentire sul reale valore di una salita, a me si rimprovera piuttosto che tendo a minimizzare quello che faccio.
Qualche volta mi è capitato di fare il capo spedizione, ma solo in gruppi molto piccoli, dove l’incarico era quasi formale e riguardava solo i rapporti con le autorità. Non mi sono comunque mai trovata in situazioni in cui il capo spedizione dovesse fare anche il papà; forse sono stata fortunata, ma ho sempre incontrato compagni che non avendo bisogno di imporre il loro predominio, hanno permesso di non perdere tempo ed energie in sfide e beghe da campo base, per concentrarsi esclusivamente sulla salita. Di certo la forzata convivenza, per di più nelle condizioni disagiate dell’alta quota, fa sì che in spedizione può succedere di arrivare a mostrare il peggio di noi stessi (in quanto a paure, egoismo, presunzione, meschinità, etc. etc.), ma basta un minimo di tolleranza da parte di ciascuno per riuscire ad accettare quasi serenamente i difetti degli altri e far sopportare i nostri, con il risultato fondamentale di riuscire a mantenere l’unità del gruppo e di far nascere anche profondi rapporti d’amicizia. Non sono una buonista; ho solo constatato che la vita d’alta quota placa rapidamente i bollenti spiriti e i sogni di gloria nati sul divano di casa devono essere rivisti alla luce di un’infinità di variabili, alcune importanti e gravi e altre tanto banali da sembrare ridicole, e comunque tutte determinanti per la riuscita della salita. E’ semplicemente la natura che provvede a mettere a posto le cose; e se nonostante tutto qualcuno non la capisce…


HOME PAGE | NEWS | SPEDIZIONI | RACCONTI | GALLERIA MULTIMEDIALE | CONFERENZE | CONTATTI | SOLIDARIETA' | LINKS | Mappa del sito


Torna ai contenuti | Torna al menu