Nives MEROI


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il girotondo degli dei

RACCONTI

IL GIROTONDO DEGLI DEI
Icone di un’invernale


La sera prima di partire
Finalmente si parte: domani 28 gennaio, con un mese di ritardo sul programma.
L’idea era bella: festeggiare con un Capodanno particolare una “salita” particolare, la prima invernale alla “Cengia degli Dei”.
Poi come sempre, i soliti contrattempi: malanni di stagione.. problemi di lavoro..
Ma domani si parte: sveglia alle cinque, per risalire il lungo vallone che porta alla forcella di Riofreddo, punto di inizio del “girotondo” che in tre giorni sempre lì, speriamo, si concluderà.
Circa sette chilometri da percorrere in orizzontale, seguendo la serie di cenge che intorno ai 2.200 metri di quota, gira tutt’intorno la parete dello Jof Fuart, fino a raggiungere quella della Riofreddo, passando per l’Innominata e le Madri dei Camosci.
Tecnicamente facile, secondo i criteri d’oggi: al massimo 4°grado; ma le sue caratteristiche sono altre: la difficoltà di orientamento, la roccia friabile proprio nei tratti impegnativi, l’impossibilità, a parte qualche passaggio, di procedere in cordata. Certo, non i gradi che caratterizzano gli exploit dei giorni nostri, né la ricerca dell’estremo; solo il fascino romantico di un’avventura diversa dal solito: orizzontale circolare.

L’anello di cenge
“M’è venuto varie volte il pensiero che si potrebbe combinare un anello di cenge intorno a tutta quell’immensa isola di roccia formata dallo Jof Fuart, coi baluardi della Cima de lis Codis e l’intera catena delle Madri dei Camosci. La cengia delle cenge: la Cengia degli Dei. L’idea è forse fantastica, ma la realizzazione sarebbe grandiosa…”.
Nata dal sogno romantico di Julius Kugy, che così scriveva nei primi anni del ‘900, trovò la realizzazione ad opera di Emilio Comici, che nel 1930 insieme a Mario Cesca, ne effettuò il primo giro completo.
“..se Kugy ha dato il nome e l’idea, a Comici è dovuta l’attuazione di un sogno (dove) solo alla sua valentia e decisione di alpinista è stato possibile forzare passaggi dove questi mancavano…”. Un alpinismo diverso, intriso dei concetti di superuomo e volontà di potenza propri dell’epoca. Ma Comici semplicemente alpinista, che pur con un approccio diverso si avvicina a questo sogno, attratto anch’egli dal fascino mistico di queste “Vie Eterne”, tracciate dalla natura perché gli dei vi possano camminare.

L’odore del freddo
“E’ da tirare la blu !”. E’ questo il momento della doppia che meno “prediligo”; c’è sempre quell’attimo col fiato sospeso, quel diavoletto che potrebbe metterci la coda e incastrare la corda da qualche parte.
…Silenzio…”Non viene!”. Riproviamo tutti insieme… Il timore si materializza in un ostinato allungamento. Niente da fare… A questo punto altro silenzio: quello degli abissi insondabili. Evitiamo di guardarci in faccia, aspettando che qualcun altro si decida e inizi a risalire la corda per andare a sbloccarla.
Dopo poche centinaia di metri sulla Riofreddo abbiamo già sbagliato cengia e siamo dovuti scendere per riprendere quella giusta. Ci si può perdere su una via di 800 metri, figurarsi qui, lungo questo sistema di cenge, a volte ampie e ghiaiose, ma più spesso strette ed esposte, altre volte si interrompono e allora le devi cercare, e salire o scendere per riprenderne la traccia.
Aggiungiamoci poi la neve, che d’inverno ovviamente ricopre le cenge; è un problema visivo, prima che materiale; un bianco spiazzante che confonde le certezze stampate sulle pagine della relazione.
Stop – pausa. Si cambia metodo: presi i principali punti di riferimento è meglio credere all’intuito e “guardare con gli occhi” di Kugy, e di Comici, e dei camosci, che per primi ne percorsero alcuni tratti.
La doppia incastrata, la ricerca della via, ci hanno completamente assorbito per l’intera mattinata; di colpo mi rendo conto che abbiamo girato l'angolo della Riofreddo e siamo ora sul versante nord. E’ una consapevolezza che nasce improvvisa, che nasce da dentro; non è un’analisi oggettiva: non perché il sole non ci illumina più, né per il colore diverso della luce, o per le dita gelate, è per l’odore del freddo.

La telefonata
Le cinque del pomeriggio; oltrepassata la Gola Nord-Est, cerchiamo un posto per bivaccare e ci fermiamo.
Un piccolo slargo della cengia è sufficiente; riponiamo il materiale assicurandolo alla parete, e ci prepariamo per la notte.
L’atmosfera è quasi astratta; dimenticati i passaggi, le doppie, gli avvenimenti di oggi, ancora lontani quelli di domani; questo è il momento vuoto della giornata, quando il tempo non tende più a niente.
Strana quest’avventura: camminare e arrampicare lungo un anello di cenge; quelle che generalmente guardiamo come possibili vie di fuga o assaporiamo come piacevoli interruzioni alla tensione della salita.
In genere il viaggio è in verticale; è salire fino a una cima che possiamo conquistare, violare, o anche rifiutare, ma che già sappiamo, perderà di significato non appena raggiunta, condannando l’alpinista, moderno Sisifo, a ridiscendere al piano per far risalire il macigno verso una nuova meta.
E qui allora?! Arrampicare seguendo una via che anziché raggiungere una vetta, ci gira intorno con un sistema di cenge. La Via Eterna: un girotondo che non finisce mai. Estrema espressione non dell’assurdità del gioco, ma della nostra necessità di definirlo.
Perché in realtà Sisifo era felice, sapeva che il macigno era soltanto suo. E forse questo basterebbe: accettarlo, per riprendere in mano il proprio destino e far tacere gli idoli.
Improvviso, il trillo del telefonino…”Ciao….Si, tutto bene…No no, un bel posto comodo…A domani, allora…Si, alla stessa ora.”
Di fronte, gli ultimi raggi di sole tingono le cime di toni rossi sempre più cupi; qui, ci avvolge l’azzurro malinconico di un crepuscolo invernale, quasi penombra: quella delicata luce della sera che invita a sognare.

Gli dei devono essere proprio piccoli !
“Fagli un paio di foto!”, mi dice Romano. Luca si sta calando in doppia per raggiungere il traverso friabile ed esposto, che sostituisce il famoso pendolo di Comici, dopo che l’enorme frana del ‘79 ha stravolto la fisionomia di questo tratto di parete.
Un posto incredibile. Enormi pilastri ti pendono sopra la testa, sembra quasi che stiano su per magia; e a guardar giù, un salto nel vuoto fino alla base della parete, 400 metri più sotto.
Premo il pulsante - non scatta.
“ Furba, eh?!...”. Romano è un po’ acido.
Finito Romano, continua Luca :” …Potevi almeno togliere la batteria e metterla in tasca...Tocca sempre a me fare foto…Anche in spedizione…”.
…Uomini ! Sempre pronti a sottolineare anche il più piccolo sbaglio…e che fastidio quando si coalizzano… D’ istinto potrei ucciderli con uno sguardo. Ma devo stare zitta, hanno ragione loro: ‘sta notte ho dimenticato la macchina nello zaino e col freddo si è scaricata la batteria.
Esauriti i commenti, ci troviamo riuniti sul terrazzino della doppia che riporta alla Cengia.
“Ah! Qui, prima o poi viene giù tutto.” Ammiro questa razionalità maschile che consente loro di mantenersi freddi e distaccati in qualunque situazione; io, spesso in balia delle emozioni, quasi mi rattristo e anche un po’ mi preoccupo, al pensiero che l’incantesimo possa d’improvviso svanire, facendo precipitare giù, un’infinità di metri cubi di roccia.
Proseguiamo lungo le cenge, attraversiamo canali e scavalchiamo speroni fino a girare l’angolo, per affacciarci sul versante della Val Spragna, affascinante e selvaggia.
“Gli dei devono essere proprio piccoli, per riuscire a passare qui !”. Luca è euforico e la sua fantasia galoppa, ma a pensarci bene ha proprio ragione. Non possono essere altissimi, se già noi dobbiamo strisciare carponi trascinando lo zaino.
Il cielo si è fatto minaccioso, la parete è spazzata dalle raffiche di un vento freddo e ostinato che ha portato fin qui un muro grigio di nubi compatte.

Il rito del te
Riparata da un profondo tetto, la cengia qui è pulita, ricoperta di ghiaia sottile. Sola, una piccola chiazza di neve sembra lì apposta per rifornirci d’acqua.
Sono le 17; ci sistemiamo per un’altra lunga notte invernale.
Con gesti lenti, senza fretta, ciascuno prepara il suo letto: toglie i sassi più grossi e con ampie bracciate sparpaglia la ghiaia per pareggiare il fondo, quindi srotola il materassino e fa una prova - no, il solito spuntone sotto la schiena. Qualche colpo di martello e finalmente è a posto.
Tolti gli scafi, indossiamo il piumino e siamo pronti per la “cena”.
Bisogna preparare un muricciolo di sassi per il vento e una base stabile su cui poggiare il fornello per preparare il te. L’atmosfera è tranquilla; al caldo infilati nei sacchi a pelo, ritroviamo quel ritmo misurato e pacificante che lo fa quasi sembrare un rito.
Il vento, là fuori, soffia sempre più frenetico; domani, o forse già ‘sta notte inizierà a nevicare.
Andare in montagna d’inverno è sempre un’esperienza impegnativa; il tempo si dilata, tiri che d’estate sali in pochi minuti, possono richiedere ore perché ogni appiglio deve essere ripulito dalla neve, anche il materiale addosso ti rallenta: il vestiario è ingombrante, gli scarponi non ti danno sensibilità, lo zaino è pesante, e poi c’è il freddo, le poche ore di luce, i lunghi bivacchi.
Ma non è una forma estrema di masochismo, è che d’inverno la montagna ha un fascino perfetto e ora, più che mai, ti da la sensazione, o l’illusione, di farne parte.

Ma quanto manca alla “Mosè”?!
Lo so, è una domanda stupida e a rischio; ma sto solo cercando di prendere tempo e rimandare di qualche minuto, il momento inevitabile e crudele di saltar fuori dal sacco per tuffarci nella bufera di neve.
“Come fai a non saperlo, con tutte le volte che sei venuta da ‘ste parti!”.
Gli uomini ahimè, non concepiscono queste domande “indirette”, dove la risposta non dovrebbe essere espressa in metri, ma in…minuti: “ Si, ancora un attimo, ma poi bisognerà alzarsi”. Ogni domanda deve essere diretta, pertinente ed espressa con proprietà di linguaggio.
Mi è andata male. Dai, pronti – via.
La forcella Mosè vuol dire la fine delle difficoltà; dall’altra parte, sul versante sud, la cengia si allarga pianeggiante fino alla forcella di Riofreddo, il punto di inizio del nostro “girotondo”.
Ma arrivare fin là è ancora piuttosto lungo e impegnativo. La cengia continua irregolare, a volte si assottiglia friabilissima o si interrompe del tutto per riprendere più sotto, altre volte è larga ma ricoperta da un profondo strato di neve desolatamente inconsistente in cui annaspi, annaspi, fino a quando tocchi la roccia.
A volte succede che la neve semplifichi i passaggi, ma in genere li complica. Cambia consistenza su ogni versante e secondo l’esposizione al vento: prima scricchiola sotto i ramponi, giri l’angolo e ti trovi immerso fino alla vita.
L’attenzione deve essere continua, il singolo passo calcolato; a parte qualche breve tratto, proseguiamo sempre slegati.
Manca poco, gli ultimi duecento metri facili e siamo in forcella.
Sbucare sulla Mosè è come aprire il finestrino della macchina mentre viaggi in autostrada. Raffiche improvvise e violente che ti tolgono il fiato.
Un’occhiata al pendio a sud: non è male, sembra che non ci sia rischio di valanghe.
E allora, via di corsa: in un paio d’ore arriviamo alla Riofreddo, riprendiamo gli sci e giù a rotoli fino alla macchina e per finire un altro girotondo…di birre però.

Il cerchio si chiude
Quando Kugy intuì il meraviglioso enigma di queste tetre pareti, ebbe la sensazione di aver rubato alle Alpi Giulie uno dei loro più belli e gelosi segreti. Disse che fu pervaso dai “ brividi d’un romanticismo degli abissi che s’impone come favolosa violenza”.
Per noi, figli dell’epoca degli exploit, l’invernale alla “Via Eterna” è un piacere assolutamente egoistico, quasi un lusso un po’ snob.
Ma da questo presente gratuito riemerge lieve il nostro passato. Il tempo di percorrere le “Vie degli Dei” e non siamo più il romantico alpinista di inizio 900 e il free climber del 2000, ma due epoche insieme: è questo il segreto della Via eterna.
(Che gli dei siano veramente così piccoli che, nascosti dietro i sassi, ci guardano lasciandoci passare?!).


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